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Vitiello: “Anm, lo sciopero non tutela la categoria”

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L’intervento pubblicato da "Il Riformista - Napoli", 14 maggio 2022.

L’Anm ha scelto il 16 maggio come data per lo sciopero dei magistrati contro la riforma dell’ordinamento giudiziario e del Csm. Non accadeva dai governi Berlusconi, ma i tempi oggi sono profondamente mutati, come mutata è la percezione della magistratura da parte dell’opinione pubblica che prima ne condivideva le proteste e oggi dubita fortemente della credibilità di un ordine in ragione di quanto accaduto nel 2019, quando il correntismo e gli scandali si sono sommati all’arretratezza e all’inefficienza del sistema giudiziario, corrodendo la fiducia nella magistratura.

Le ragioni di questo sciopero, poi, pur sulla scorta di legittime posizioni assunte dalle toghe sui temi della riforma che riguardano il loro ordinamento e la loro partecipazione alla vita politica (è certamente vero che il maggioritario, potenzialmente, rafforza, anziché indebolire, il potere delle correnti), rischiano di essere fortemente strumentalizzate e sminuite rispetto all’apparente giustificabile obiettivo di regolare il loro rapporto con il loro “datore di lavoro”, perché si tratta di una riforma – almeno apparentemente – volta a ripristinare un riallineamento dei poteri dello Stato.

Sia chiaro: questa riforma non mi piace perché è affastellata di petizioni di principio con annesse deroghe che sterilizzano i principi stessi. Una tecnica legislativa che abbiamo osteggiato sin dal primo momento perché volevamo più coraggio e misure davvero virtuose, ispirate al contingentamento dei fuori ruolo, alla massima trasparenza nei passaggi attraverso le “porte girevoli” e alla meritocrazia nell’assegnazione degli incarichi direttivi e semidirettivi.

Avremmo voluto una riforma che risolvesse due “nodi gordiani”: da un lato, la malcelata sovrapponibilità delle correnti alla politica dei palazzi, sino a perdere soluzione di continuità con quest’ultima, con il serio e concreto rischio di interferenze che provocano la “concentrazione dei poteri” e la caduta del modello democratico ispirato, viceversa, alla loro separazione; dall’altro, il fenomeno del carrierismo interno alla magistratura e, quindi, la primazia dell’interesse del singolo rispetto a quello collettivo.

Anche rispetto al tema della separazione delle funzioni, è stata realizzata un’operazione di facciata che, in realtà, non risolve il problema. Si rifugge dal fatto che le definizioni dei ruoli di giudice e di pubblico ministero sono veicolate dal modello processuale penale in ragione del peso che occorre dare all’imparzialità del giudice: la struttura accusatoria del nostro processo penale avrebbe dovuto, sin dalla riforma del 1988, condurre il legislatore a distinguere nettamente non solo le funzioni ma anche le carriere di giudice e pubblico ministero.

La modifica dell’articolo 111 della Costituzione, poi, ha reso ancora più anacronistica la mancanza di tale distinzione, perché ha elevato a principio costituzionale imparzialità e terzietà del giudice, chiamato a controllare l’operato del pubblico ministero nella fase investigativa e la formazione della prova nel contraddittorio tra accusa e difesa, pilastri del “giusto processo”.

Il tema ha un forte impatto sull’attuale disallineamento esistente tra poteri dello Stato, mettendo seriamente in discussione il nostro sistema democratico, in ragione dell’espansione del potere giudiziario negli ultimi trent’anni, del ruolo di supplenza della magistratura nei confronti del potere legislativo e della conseguente creatività dell’interpretazione giudiziaria. Avrebbe dovuto essere questa l’occasione per riequilibrare i rapporti tra il sistema giudiziario e le istituzioni politiche, anche mediante il recupero della percezione dell’imparzialità del giudice da parte dei consociati.

E allora, ho più volte sostenuto che non bisogna demonizzare le correnti perché ritengo giusto se non doveroso gestire la “cosa comune” anche con le diverse sensibilità culturali presenti all’interno della magistratura. Tuttavia, quello che più dispiace è che, con questa iniziativa (non voluta e non avallata dall’intero corpo), la magistratura non sembra tutelare se stessa nella sua totalità e nelle sue funzioni, bensì quella percentuale – certamente minoritaria rispetto alle oltre novemila unità – di fuori ruolo e di dirigenti che vuole supplire al potere politico e determinare le dinamiche del Paese.