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Rostan: "Sanità, il regionalismo è stato un fallimento"

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L'intervento della parlamentare di Italia Viva, pubblicato dal "Corriere del Mezzogiorno".

Caro direttore, questa terribile pandemia ha trovato il mondo impreparato. Di fronte alle notizie che arrivavano fin da dicembre dalla Cina, i grandi paesi hanno scelto di non vedere e di non sapere. Si sono convinti che l'epidemia si sarebbe fermata lì, in estremo oriente, e non avrebbe attraversato tutto il pianeta. Anche l'Italia, ovviamente, è rimasta a bocca aperta di fronte a un pericolo che era reale e immaginabile, visto il precedente della Sars.

Esisteva, infatti, un Piano pandemico fin dal 2007, che elencava le cose da fare alle prime avvisaglie. Cose che sono state fatte in ritardo e male. Ci siamo fatti cogliere di sorpresa rispetto a un virus che ci aveva dato un avvertimento di almeno due mesi. Ora la pandemia è in corso, ci stiamo impegnando per ridurre il contagio e alleggerire il carico sul sistema sanitario: cerchiamo di guadagnare tempo, nell'attesa che la ricerca scientifica faccia il suo corso, e che le strutture si rendano capaci di dare le risposte. Siamo sprovvisti delle tecnologie, dei dati, delle connessioni tra i sistemi.

Non abbiamo tutele personali per medici, infermieri, operatori, che oggi risultano i primi contagiati, le prime vittime. Non abbiamo autonomia produttiva sui dispositivi di protezione individuale, che oggi dobbiamo correre a produrre da soli riconvertendo altre linee industriali. Nei nostri ospedali abbiamo diffuso il virus, creando focolai, per la mancanza di un pre-triage di emergenza che doveva essere pronto per circostanze del genere, e del resto siamo già da tempo paese record per le infezioni batteriche nelle strutture sanitarie. Siamo partiti con poco meno di 5 mila Terapie intensive, portate freneticamente a 9 mila, laddove la Germania ne aveva già 28 mila di base.

Ora ci sono da fare cose precise per avviarci alla fase due: screening di massa con test sierologici, riaperture graduali probabilmente sui territori, per zone. Non si può chiedere ovviamente sacrifici a tutti per troppo tempo. Emergono grandi questioni sociali, in alcune zone del Paese, e non tutte le quarantene sono uguali. C'è chi si porta dentro casa una sofferenza strutturale e irrisolta, che ha bisogno di risposte. Emergenza sanitaria e crisi sociale sono due facce dello stesso dramma: la salute è quella fisica ma è anche quella economica e occupazionale.

Le persone accumulano stanchezza e paure. Va ricucito un filo di fiducia con le istituzioni. La scienza indica la via ma la politica sia capace di decidere e organizzare. Abbiamo bisogno di una linea di comando unica e autorevole, basta messaggi confusi e contradditori. La situazione sociale così non tiene. Sbaglia chi si illude che tra un mese si torna alla vita di prima. Non sarà così: prima lo capiamo meglio è. Dovremo prepararci a introiettare nuovi stili di vita: mascherine obbligatorie, distanze sociali, igiene.

Non ammalarsi significherà lavorare, produrre rispettando le regole di sicurezza, e non solo chiudersi in casa. Poi toccherà costruire il futuro. Finirà l'emergenza, tornerà la vita come la conosciamo. Lì dovremo far tesoro di questo terribile momento: basta baronati e carrierismi nella sanità, ci vogliono competenza e trasparenza. Più investimenti e si ritorni, infine, a una sanità unica nazionale.

Il regionalismo ha fallito nel metodo e nel merito. L'autonomia differenziata avrebbe creato ancora più danni. Il sistema sanitario si chiama nazionale perché deve essere unico e universale. Più centralismo, meno clientelismo. Su questo ci toccherà lavorare.