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Renzi: «A 50 anni canto e ballo».

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Intervista a Matteo Renzi per «Il Venerdì di Repubblica» del 10-01-2025

di Francesco Bei

ROMA. Domani, 11 gennaio, Matteo Renzi festeggia 50 anni. L'ex royal baby, come lo chiamava Giuliano Ferrara, non è più baby e nemmeno tanto royal. La festa sarà a Firenze, festa pubblica, con tutti i renziani d'Italia, festa politica. Non solo per mangiare insieme la toscanissima pappa al pomodoro, ma per lanciare un'offensiva contro Giorgia Meloni, «un anno scoppiettante contro una destra illiberale». Nella convinzione di poterla buttare giù, perché «incapace e pericolosa». Qualche giorno prima del genetliaco,Renzi si apre e fa un bilancio delle cose perse e guadagnate, delle sfide, degli errori e di tutto quello che resta. Davanti alla scrivania, nello studio di palazzo Giustiniani che fu di un altro toscano, Amintore Fanfani, una grande foto in bianco e nero di Bobby Kennedy, a ricordare gli ideali di gioventù.

E questa foto sopra al divano? È il celebre scatto di Che Guevara e Fidel Castro che giocano a golf all'Avana dopo la rivoluzione. Che ci fa qui?

«Me l'ha regalata Diego Della Valle. L'ho portata dal Nazareno, mi ricorda di quando feci lì il famoso incontro con Berlusconi. Il Cavaliere la notò e io:"Presidente, vede che anche i comunisti giocano a golf". Lui si mise a ridere e me la chiese. Ma, come vede, sta ancora qui con me».

Alla boa dei cinquant'anni ha deciso di galoppare lancia in resta contro Meloni. Ma in queste settimane la premier viene celebrata dalla stampa internazionale com e la leader più forte d'Europa, Trump e Musk chiamano lei. Tutto un bluff?

«Meloni è una grande influencer, si sa vendere. Ma non sta facendo assolutamente nulla. E si circonda di incapaci. La prima reazione della gente è: poverina, come fa a governare con questi? Ma circondarsi di incapaci è una strategia precisa, un suo modus operandi. Così tutti dicono: meno male che c'è la Meloni. Sfido io! Avendo attorno Salvini e Tajani, chiunque sembrerebbe uno statista. Ha portato al governo una classe dirigente improvvisata, l'ex cognato che ferma i treni, quell'altro che spara alla festa di capodanno, loro sono così».

Meloni le darà del "rosicone", come faceva lei all'epoca...

«Scherza? I miei primi due anni avevano già visto il Jobs act, Industria 4.0, l'Imu prima casa, gli 80 euro, la legge sul Terzo settore, la legge "un euro in cultura, uno in sicurezza", le unioni civili... Ne avevo fatte fin troppe, avevo anche rotto le scatole a molti. Lei ha fatto il rave party e la moto terapia».

Però il Pnrr lo stanno gestendo discretamente e non si vedono disastri. Non era scontato.

«Lo gestiscono ma non c'è un'idea di cambiamento, non l'ha avuta Meloni, non l'ha avuta Conte e, spiace dirlo, nemmeno Draghi. Non c'è l'idea chessò, di trasformare l'Italia in una "start-up nation", oppure quella di farne il Paese della longevity o dell'intelligenza artificiale. C'è solo il mandare stancamente avanti progetti che c'erano. Così persino inaugurare una piazza di fronte al Vaticano diventa un miracolo civile. È tutta una narrazione esasperata. Va in Lituania dai soldati italiani e fa il discorso strappalacrime citando Il Signore degli Anelli. Nessuno le ricorda che nel 2016 sosteneva che fosse un'idiozia inviare lì le nostre truppe. Il problema è che abbiamo tutti la memoria di un criceto».

C'è il piano Mattei, anche quello è sbagliato?

«Quelle sono le cose che l'Eni progetta da dieci anni, quando abbiamo messo al vertice Descalzi, soprannominato non a caso "Claudio the African". Meloni copia, trova un nome sexy per i media e si intesta il lavoro altrui: il piano di Matteo diventa il piano Mattei e tutti le fanno i complimenti».

Se dovesse essere ricordato per una cosa, una soltanto di quelle fatte nei mille giorni a palazzo Chigi, quale sceglierebbe?

«Non una cosa ma un sentimento. Si era aperta una stagione di speranza, c'era l'dea che ce la potessimo fare come Paese».

E al fondo, secondo lei, perché è finita?

«Al fondo? Per i nostri errori, è ovvio. Ma soprattutto per fuoco amico. In quella stagione una parte del gruppo dirigente ex Pci-Pds ha voluto perdere il Paese pur di riprendersi la Ditta. A me nessuno di loro ha contestato quello che facevo al governo, ma io avevo usurpato la Ditta e quella per loro vale più del Paese. Per me era il contrario».

Adesso quelli che la criticavano di più sono rientrati nel Pd. Che effetto le ha fatto?

«Li vedo, sono molto più contenti ora che stanno all'opposizione, perché è il loro habitat naturale. Perché la cultura del governo - ed è questa la grande lezione democristiana - richiede il compromesso. E se non lo fai, se dai lettere scarlatte a quelli del tuo campo di cui non condividi tutto tutto, vincono quegli altri».

A proposito di compromessi, lei aveva fatto il patto del Nazareno con Berlusconi. Un patto sulle riforme che salta perché lei prova a imporre Mattarella a Berlusconi. Valeva la pena, posto che il Cavaliere avrebbe detto di sì a un nome di sinistra come quello di Amato?

«Io rivendico il patto del Nazareno, ovvero il tentativo di rendere questo un Paese civile in cui si parla con chi sta all'opposizione. In cui non si va in Aula a urlare come se fossimo al mercato, come fa la nostra presidente del Consiglio. Io ho pagato il prezzo dell'elezione di Mattarella, ma era la cosa giusta da fare. Un Presidente arbitro, secondo la lezione di Leopoldo Elia».

È stato quello l'inizio della fine?

«Non ancora, è stato più avanti.L'inizio della fine sono le trivelle e l'indagine su Tempa Rossa nel 2016, quando un gruppo di magistrati della procura di Potenza, un gruppo di influenti opinionisti e parte del mio schieramento politico iniziano a farmi la guerra. Ma è chiaro che la rottura con Berlusconi, numericamente e politicamente, ha fatto la differenza. Se ci fossimo presentati al referendum insieme non l'avrei perso».

Ripeto: ne è valsa la pena?

«Sì, sono convinto di aver fatto due scelte giuste sul Quirinale. La prima nell'aver indicato Mattarella nel 2015, la seconda nell'aver impedito a Elisabetta Belloni, una che dirigeva i Servizi segreti, di essere eletta nel 2022. Nessuno me ne è grato, ma è una cosa che mi permette al mattino di guardarmi allo specchio».

Non ha fatto errori? E solo colpa degli altri?

«È evidente che ho commesso errori. Ma se penso ai miei 50 anni, a come ci arrivo, mi vengono in mente due parole che una volta mi disse un caro amico che non c'è più: letizia e gratitudine. Sono felice e ho imparato tanto, anche nei momenti in cui ero solo come un cane, soprattutto quando mi hanno diffamato».

È cambiato in qualcosa o è sempre, come dicono, un bullo?

«Il bullismo l'ho subito, mai praticato. E tuttavia ho imparato a essere più gentile con le persone. Perché quelli che incontri quando sali le scale sono gli stessi che incontrerai quando le scendi. E tutti, prima o poi, le scendiamo».

E adesso che fa?

«Sono arrivato a 50 anni, canto, ballo e sono felice. Però la fase zen è finita dopo le assoluzioni: adesso rilancio sulla politica».

Uno che a  40 anni era arrivato in cima a che cosa ambisce? Tornarci?

«È evidente che non potrò mai più avere il potere che ho avuto prima. Per un paio d'anni posso dire che sono stato l'uomo più potente d'Italia. Nemmeno se tornassi a palazzo Chigi domani avrei più quel potere. Io sceglievo il capo dell'Eni, dell'Enel, delle Poste, e tutti gli altri sulla base delle mie idee. La riunione finale la facevo da solo allo specchio».

E dunque, non le manca quel potere?

«No. Ho pagato personalmente un prezzo umano durissimo perché ero libero. E lo sono anche oggi. Non mi manca il potere come sostantivo ma come verbo: il potere di cambiare le cose. Questo non l'ho più come prima e mi dispiace perché sono meno utile alle persone».

Un sogno?

«È fare di Italia Viva, un partito ucciso in culla dalle indagini Open, un' altra cosa. Trasformarlo sempre di più in "Italia Vivaio", un polo che attragga i giovani e li porti ad appassionarsi alla politica».

In un'intervista sul Foglio, Gianfranco Fini ha parlato del mistero del potere e della nostalgia del potere. Davvero non c'è qualcosa che le manca?

«Ho trovato molto umana quell'intervista e ho pensato ai molti che sono andati in depressione dopo aver perso il potere. Ma io questa fase qui non l'ho vissuta. E dire che sono passato dall'essere ai tavoli internazionali a non avere più un tavolo a casa mia a Pontassieve, perché nel frattempo lo aveva portato via mio figlio Emanuele».

Anche i laudatori spariti tutti in fretta? «

Gli adulatori, spariti. E gli altri a prendersi i meriti dei posti di lavoro che aumentavano. Gentiloni mi scrisse un messaggino dopo il vertice per i 50 anni dell'Ue che avevo organizzato io personalmente. Un sms molto affettuoso, ovviamente per il grado di affetto che Gentiloni può esprimere, che diceva "grazie, so che dovresti esserci tu qui al posto mio". I primi giorni vedi la tv e ti fa strano non essere tu lì».

Vive meglio o peggio?

«Meglio. Mi faccio le vacanze, sto in famiglia, leggo più libri. Uno molto arrogante come me, non ha bisogno del potere per sapere di essere bravo».

Il mitico centro. Si farà mai?

«Il centro è il luogo grazie al quale si vince o si perde la partita. C'è un'opportunità evidente. La Meloni con la sua coalizione non è maggioranza nel Paese, è diventata presidente del Consiglio grazie a Enrico Letta che ha voluto dividere la coalizione e lo resta oggi perché i 5 stelle rifiutano l'alleanza organica».

Schlein?

«La cosa che più apprezzo di lei è che rifiuta la logica del meglio pochi ma buoni. Quel settarismo della sinistra che è il miglior alleato dell'estremismo della destra. Schlein, che viene da una storia molto diversa dalla mia, ha capito che con quel settarismo lì si perde e lei, invece, vuole vincere».

E a quel punto il centro diventa decisivo?

«Sì, chiunque lo rappresenti, chi sta lì vale doppio. Perché sono voti che vengono rubati al centrodestra».

Guidato da chi?

«Da qualcuno che capisce la politica, quindi non gente come Calenda per intenderci. E poi che abbia un consenso reale. Anche piccolo, ma ci deve essere. Capire di politica riduce molto il numero di aspiranti».

Tutti pensano che lei abbia un solo nome in testa, il suo...

«Se c'è una cosa sicura è proprio che non voglio farlo io. Voglio dare una mano, dico fatelo voi. L'ho fatto fare a Calenda, lo può fare chiunque».

Ernesto Maria Ruffini?

«Non so. Se vuole provarci, che ci provi. Lasciateglielo fare. Più che il nome a me interessa capire: sulle tasse che si fa? La stagione del renzismo è stata quella in cui le tasse si buttavano giù, non delle patrimoniali, il centro dovrebbe dire questo».

Si lamenta per la norma contra personam, ma non era lei che diceva che sul conto corrente di un politico ci dovevano essere pochi soldi? Lei oggi è uno dei più ricchi del Parlamento.

«Mi accusavano di essermi arricchito con il governo. Addirittura dicevano che i sacchetti di plastica sarebbero aumentati di un centesimo al supermercato perché li produceva mia cugina. Uscito dal governo, io ho fatto vedere il mio conto e avevo 15 mila euro. Tuttavia, visto che ora sono solo parlamentare, rivendico il diritto di lavorare come tutti gli altri. Altrimenti, vogliamo impedire anche alla Bongiorno di fare l'avvocata? Il mio lavoro è fare conferenze, è tutto fatturato, ci pago le tasse. Vogliamo fare una legge che impone ai parlamentari di fare solo i parlamentari? Io ci sto, ma chi la vota?».