Pubblichiamo l'intervento integrale di Matteo Renzi tenuto il 12 dicembre 2019 al Senato della Repubblica
Signor Presidente, onorevoli colleghi, non stiamo discutendo di una singola inchiesta della magistratura, alla quale rinnoviamo un rispetto non formale, ma sostanziale in quest'Assemblea. Non stiamo neanche parlando, a mio avviso, semplicemente del finanziamento ai partiti e meno che mai stiamo discutendo in quest'Assemblea di una polemica mediatica. A mio avviso questo dibattito, del quale ringrazio la Presidenza del Senato e i Capigruppo, affronta la grande questione della democrazia liberale oggi e parte dal principio della separazione dei poteri tra il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario.
In tempi di Facebook parlare di Montesquieu non va di moda, ma è un dovere particolarmente vero farlo quando alcuni tra i più autorevoli leader politici del mondo utilizzano, dalle colonne del «Financial Times», la visibilità della democrazia liberale per contestarne l'imminente fine. Insomma, non stiamo discutendo di una piccola questione bagatellare, ma stiamo riflettendo sulla questione se secoli di civiltà giuridica e politica abbiano ancora un senso o no. Discutiamo qui oggi della separazione dei poteri. Tutti noi siamo potere legislativo, tutti, nessuno escluso. Chi tra di noi ha avuto l'altissimo onore di guidare pro tempore anche il potere esecutivo ha una responsabilità in più, che vorrei assolvere in quest'Aula innanzitutto prendendo spunto da precedenti discorsi parlamentari.
Non è la prima volta in cui un ex presidente del Consiglio in un'Aula del Parlamento affronta questo tema; era accaduto nel 1977, quando il presidente Aldo Moro alla Camera dei Deputati utilizzò parole notevoli nei confronti di altre forze politiche e di chi voleva processare nelle piazze il suo partito: «Non ci lasceremo processare nelle piazze». Andò così? Andò così? Impariamo dalla storia: andò così? Le parole di Aldo Moro le ripetiamo costantemente; ce le diciamo, ma in realtà quella vicenda - lo scandalo Lockheed - ha segnato la storia istituzionale del Paese, non già per il processo che venne fatto ad alcuni Ministri, ma per la conseguenza più alta: le dimissioni del presidente della Repubblica. Giovanni Leone fu infatti costretto a lasciare il Quirinale anzitempo non perché coinvolto - paradosso dei paradossi - egli, professore di procedura penale, ma in ragione di uno scandalo montato ad arte da una parte dei media e da una parte della politica, che trovo doveroso che venga ricordato qui.
Proprio qui, infatti, vi è chi ebbe il coraggio e l'onestà intellettuale, la senatrice Emma Bonino, vent'anni dopo, di scrivere una lettera di scuse, assieme al compianto onorevole Marco Pannella, proprio a Giovanni Leone in occasione dei suoi novant'anni. Onorevoli colleghi, per distruggere la reputazione di un uomo, di un esponente delle istituzioni, può bastare una copertina di qualche settimanale (che poi, i tempi cambiano ma i settimanali rimangono!); quello che serve per ricostruire quella reputazione sono anni e anni. Forse - lo dico con il rispetto che ella conosce - neanche la lettera della senatrice Bonino e dell'onorevole Pannella riuscì a recuperare fino in fondo il prestigio e l'onore che il presidente Leone aveva il dovere di vedersi riconosciuto. Nel 1992, il presidente Bettino Craxi parlò a Montecitorio. So già che basta pronunciare questo nome - per le note vicende giudiziarie - per aprire subito un dibattito reso particolarmente attuale dal fatto che siamo nell'imminenza del ventennale della tragica scomparsa di Craxi. Non voglio, tuttavia, aprire adesso qui un dibattito su un argomento che non riguarda l'oggetto della nostra discussione, vale a dire la figura politica di Bettino Craxi.
Mi limito a dire che il 3 luglio del 1992, intervenendo per la fiducia al Governo guidato da Giuliano Amato, Bettino Craxi pronunciò un discorso anche in questo caso molto citato e poco letto, come spesso accade ai discorsi dei politici. Egli, infatti, chiamò in causa tutto l'arco costituzionale, compresi i partiti di recente formazione allora, quei partiti che esibivano il cappio, ma che erano stati già coinvolti in vicende di finanziamento illecito, e disse che larga parte del finanziamento ai partiti era - parole testuali di Craxi - illecito o irregolare. Un'assunzione di responsabilità per tutto il sistema costituzionale, non soltanto per qualcuno. Ebbene, di quel discorso di Craxi pochi ricordano l'incipit. Craxi disse: «Ho imparato ad avere orrore del vuoto politico». Di questo discutiamo, signor Presidente, non del finanziamento illecito semplicemente; stiamo discutendo della debolezza della politica davanti a una oggettiva necessità: quella di porre il sistema in condizioni di essere un sistema efficace.
Voglio essere molto chiaro: non mi sento minimamente paragonabile alla statura di due leader quali quelli che ho appena citato. Condivido con loro soltanto l'altissimo onore rivestito, ma non ho alcun dubbio sul fatto che tra me e loro c'è una differenza profonda di levatura, indipendentemente dal giudizio che si possa avere sulle singole persone.
Contemporaneamente, non vi è chi in quest'Aula non riconosca che anche nel merito delle contestazioni delle recenti vicende c'è una profonda diversità. Nello scandalo Lockheed si parlava di una tangente, vera o presunta, milionaria; nel 1992 si poneva in discussione il finanziamento di tutto il sistema dei partiti. È bene dire con forza qui che la vicenda dalla quale abbiamo preso spunto, e che certo non può essere esaustiva nella nostra discussione, è un'ipotesi di reato totalmente diversa. Qui non si parla di dazioni di denaro nascoste o illecite, si parla di contributi regolarmente registrati, bonificati e, come tali, tracciabili, evidenti e trasparenti, per la presenza di un bilancio che viene reso pubblico. Le fondazioni non sono infatti tutte uguali. Mi rivolgo ai colleghi che lo sanno meglio di me: ci sono fondazioni che rendono pubblico il proprio bilancio e fondazioni che non lo fanno o perlomeno non lo facevano prima dell'entrata in vigore della nuova normativa. Questa fondazione di cui si parla aveva il bilancio totalmente pubblico e cosa è accaduto?
È accaduta una cosa molto semplice e, se volete, molto complicata. Questi contributi regolari dati alla fondazione sono stati improvvisamente trasformati in potenziali contributi irregolari non perché si è discusso della definizione del contributo medesimo, ma perché si è cambiata la definizione della fondazione. Si è in altri termini deciso che quella fondazione non era più una fondazione, ma un partito. Il punto di discussione, per il quale io ritengo che vi sia un'invasione di campo, è che la magistratura ha deciso autonomamente non già cosa è un finanziamento illecito. Questo è il suo lavoro; la magistratura deve capire, studiare e verificare cosa è illecito. Ha preteso invece di comprendere cosa è un partito e cosa non lo è. Questo è il punto fondamentale che vorrei fosse chiaro al Parlamento perché ciascuno faccia le proprie valutazioni e non perché cambi qualcosa a noi. Noi non abbiamo alcun tipo di problema.
Deve però essere chiaro che se al pubblico Ministero affidiamo non già la titolarità dell'azione penale, ma la titolarità dell'azione politica, decidendo cosa è partito e cosa non lo è, quest'Aula, insieme alla Camera e alla politica, fanno un passo indietro per pavidità, per paura, per mediocrità, e lascia l'azione giudiziaria responsabile di ciò che è politica e ciò che non lo è. Onorevoli colleghi, è di questo che stiamo discutendo. Se su questo non è chiaro il punto, sappiate che non riguarda la vicenda specifica dei contributi trasparenti e regolari; no, riguarda quello che può avvenire a ciascuno di voi.
Ciascuna cosa può infatti diventare finanziamento illecito alla politica, non soltanto una Srl, come provocatoriamente ha detto il senatore Saccone nell'intervento introduttivo. Anche, ma è qualsiasi atto che ha a che fare con la politica che diventa potenzialmente sanzionabile. Penso che questo sia il punto di cui stiamo discutendo. Dopo di che, signor Presidente, la magistratura decide cosa è partito e cosa non lo è e, di conseguenza, manda circa 300 finanzieri la mattina, all'alba, a casa di cittadini non indagati, la cui fedina penale è intonsa, con strumenti tipici più di una retata che non di una richiesta. Per sapere infatti se il bonifico è stato fatto o meno c'è un meccanismo molto più semplice della perquisizione mattutina alle sei e mezzo di fronte ai figli sconvolti; c'è l'ordine di esibizione.
Mi volete raccontare che questo tipo di intervento è fatto a tutela degli indagati? No. Abbiate il coraggio di dire che questo tipo di intervento è finalizzato a descrivere come criminale non già il comportamento dei singoli, ma qualsiasi tipo di finanziamento privato che venga fatto attraverso le forme regolari e lecite previste dalla legge sulla fondazione, dalla legge sui partiti e da tutto il resto. È questo il punto ed è su di esso che si discute. Le conseguenze quali sono? Anzitutto se 300 finanzieri vanno nelle case di persone che hanno finanziato la politica o, perlomeno, che hanno finanziato una fondazione, e si arriva al presupposto che il processo sarà per capire se la Leopolda era un'iniziativa di partito o meglio un'articolazione di partito o, come dicevano gli organizzatori, un'iniziativa slegata alla singola vita di partito, se il processo penale si fa su che cosa sia la Leopolda, noi abbiamo evidentemente un dato di fatto: quei 300 finanzieri prendono dei telefonini, alcuni dei quali ancora non sono stati restituiti - ancora non restituiti - prendono dei dati e vanno a strascico, come si dice per quelle indagini nelle quali si parte da un reato cosiddetto presupposto, per poi andare a verificare se c'è dell'altro.
Chi si permette di dire che questo atteggiamento affronta la vita politica delle persone viene censurato dai togati del CSM. Vorrei sommessamente dire che, nella mia esperienza personale, ho avuto elementi di discussione con l'autorità giudiziaria, per la quale provo rispetto sostanziale, non solo formale. Ho avuto discussioni per le ferie dei magistrati: sono stato criticato per aver proposto la riduzione delle ferie dei magistrati; ho avuto discussioni con larga parte della magistratura per il referendum costituzionale (non solo con larga parte della magistratura), ma rispetto sia la posizione sul referendum che quella sulle ferie, perché sono due posizioni che, a mio giudizio, in un Paese democratico, sono totalmente libere e legittime.
Dico tuttavia ai membri togati del Consiglio superiore della magistratura, che censurano un senatore - quale esso sia - per l'espressione delle sue idee politiche, che non mi risulta che sia stato abrogato dall'articolo 68 della Costituzione, che, al comma primo, recita testualmente: «I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse». Spero che il CSM - o meglio i componenti togati - non dimentichino che questo articolo della Costituzione non è stato cancellato da nessuno. Le altre conseguenze sono che, in un Paese nel quale la politica costa, una perquisizione a tappeto di tutte le persone che in passato hanno concorso alle iniziative politiche e culturali di una determinata fondazione reca un dato di fatto evidente: nessuno finanzierà più un centesimo di quella parte culturale o politica.
Aggiungo io - mi sia consentito dire - che fanno anche bene. Infatti, se un cittadino perbene finanzia la politica (perché io rivendico l'abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e penso di essere ormai minoranza in quest'Assemblea) ma, accanto all'abolizione del finanziamento pubblico, il finanziamento privato viene criminalizzato, è evidente che quel cittadino, quell'imprenditore non finanzierà più la cosa pubblica.
Guardate che quando Kamala Harris (nome sconosciuto ai più, ma uno dei più interessanti del panorama democratico americano degli ultimi dieci anni) è costretta a ritirarsi perché non ha più risorse si dimostra che è soltanto un ipocrita chi dice che non servono i soldi per fare la politica. Servono soldi regolari, legittimi, puliti, trasparenti. Ma servono. Secondo punto. In questa vicenda c'è un reato di cui nessuno vuole occuparsi, signor Presidente: è il reato ex articolo 326 del codice penale, vale a dire la violazione sistematica del segreto d'ufficio.
Riguarda, in particolar modo, vicende personali del sottoscritto, per le quali non ho alcuna difficoltà a dire che noi utilizziamo il noto principio giuridico «male non fare, paura non avere». Quindi non è un problema personale, ma se nelle stesse ore della perquisizione, del tutto casualmente, la violazione del segreto d'ufficio porta a pubblicare, non con un giornalismo di inchiesta, ma con un giornalismo a richiesta, i dati sensibili, che soltanto Banca d'Italia o la procura o la Guardia di Finanza hanno, siamo consapevoli che le casualità e le coincidenze esistono, ma c'è un corto circuito tra gli strumenti della comunicazione e gli strumenti della battaglia giuridica? Siamo consapevoli che la violazione del segreto d'ufficio, ex articolo 326, non può essere derubricata a reato minore? Si perquisiscono quelli non indagati e non si perquisisce il potenziale autore del reato, perché si dà per scontato, come ha detto qualcuno, che la privacy per un politico non esista.
Guardate che questa affermazione è molto importante. Io credo che ci siano delle regole di trasparenza doverose ed è sacrosanto che noi presentiamo tutti i dati relativi alla nostra attività: è uno dei principi cardine della democrazia liberale. Ciò che non è sacrosanto, perché corrisponde ai dettami dello Stato etico, è sostenere che tutto possa essere totalmente privo di qualsiasi limite. Io non ci sto nello Stato etico di chi vuole trasformare in un processo principi di opportunità politica. Si può dire che si è d'accordo o no, ma non si può trasformare in processo ciò che è elemento di opportunità politica perché, nel processo alle intenzioni, anche se vi credete assolti, siete comunque coinvolti, per utilizzare le espressioni del poeta. Non è soltanto Stato etico, ma diventa addirittura Stato etilico quello di chi dice che i figli del politico non possono avere diritto alla privacy, per cui si fanno le foto dentro le case, dentro le camerette e si sta tutti zitti per mediocrità, paura e pavidità. Non è uno Stato di diritto questo.
Chi dice poi che la privacy vale soltanto per qualcuno e non per altri, abbia il coraggio di dire che siamo alla barbarie. Signor Presidente, non parlo per me, non parlo per noi. Penso che avere rispetto per la magistratura in questo Paese significhi innanzitutto riconoscere che ci sono donne e uomini che hanno perso la vita per fare i giudici e i magistrati: a loro, a tutti loro, va il sentimento di riconoscenza più grande che la massima espressione della volontà popolare, il Parlamento, deve avere. Noi ci inchiniamo davanti a queste storie e davanti al lavoro straordinariamente perbene di migliaia e migliaia di magistrati e di giudici. A chi però oggi volesse immaginare che questo inchino diventa una debolezza del potere legislativo davanti al potere giudiziario, si abbia la forza e il coraggio di dire che dovrà contestarci per le nostre idee, per ciò che abbiamo fatto quando governavamo da soli, per ciò che stiamo facendo governando ora: contestateci per il jobs act e per la battaglia sulle tasse.
Ma a chi volesse contestarci o, peggio ancora, eliminarci per via giudiziaria, sappia che dalla nostra parte abbiamo il coraggio e la voglia di dire che il diritto e la giustizia sono cosa diversa dal peloso giustizialismo e dalla connessione con certi strumenti di comunicazione e di stampa. Italia Viva riconosce il profondo rispetto per la magistratura. Italia Viva crede che il potere legislativo di questo Paese debba essere difeso innanzitutto da se stesso.
Chi lo desidera, può rivedere l'intero intervento qui di seguito.