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Intervista a Lucia Annibali: "Contro la violenza sulle donne, serve un approccio trasversale"

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Intervista a Lucia Annibali per Il Riformista del 9-12-2023

di Francesca Sabella

Di violenza, di giustizia e politica. Ne abbiamo parlato con Lucia Annibali, avvocato, già deputata di Italia Viva.

Dottoressa, il femminicidio di Giulia Cecchettin ci ha confermato una terribile certezza: ancora una volta lo sapevamo tutte. C'è quindi una tendenza ad abituarsi a questa violenza drammatica e senza fine che i numeri ci raccontano e ci dicono che non è un problema emergenziale ma una ferita strutturale della nostra società?

«Voglio pensare, spero, mi auguro che non ci si abitui mai. Non possiamo mai abituarci al dolore, alla sofferenza che provano anche le persone che perdono dei cari. Forse possiamo anticipare chi può essere stato quando una donna sparisce nel nulla ma la sofferenza e la partecipazione si devono sempre rinnovare. La violenza sulle donne è senz'altro un problema strutturale, quotidianamente le donne subiscono violenza e questo perché la violenza non è da mai un fenomeno emergenziale, è da sempre un fenomeno strutturale cioè è dai tempi dei tempi che le donne sono oggetto di abusi, di discriminazioni».

Esiste anche una discriminazione salariale. Gli ultimi dati rivelano che in Italia soltanto il 58% delle donne ha un conto corrente intestato e solo una su tre lavora. C'è quindi anche una violenza economica, un'indipendenza negata che porta molto spesso le donne a non voler e a non poter lasciare una casa all'interno della quale subiscono violenza. Quali strumenti il Governo dovrebbe mettere in campo?

«Quando ero in Parlamento, siamo riusciti a offrire un punto di vista un po' diverso, meno stereotipato rispetto al tema della violenza introducendo proprio il tema della violenza economica e quindi della dipendenza economica che vivono le donne che certamente è una tra le ragioni che può rallentare un percorso di libertà. Penso per esempio al reddito di libertà. Dobbiamo interrogarci su quella che è l'organizzazione sociale ed economica del nostro Paese».

A proposito di riorganizzare e rieducare la società: qualche partito ha proposto di introdurre nelle scuole l'educazione sentimentale. Cosa ne pensa?

«Dipende naturalmente come verrà strutturata, chi insegnerà questa educazione sentimentale, chi insegna deve essere in qualche modo risolto. Però è l'approccio a queste tragedie che è sbagliato: ogni caso ci suscita emozioni diverse e tiriamo fuori la soluzione del momento. appunto in quest'ultimo caso di Giulia Cecchettin sono coinvolti due ragazzi e allora rilanciamo l'educazione affettiva. Serve invece un approccio trasversale».

C'è anche un tema di educazione che riguarda chi fa comunicazione. Qual è la sua opinione rispetto all'approccio che tv e giornali hanno rispetto ai casi di femminicidio?

«L'approccio mediatico in questo Paese mi pare sempre un po' eccessivo, le storie di vita, di cronaca giudiziaria diventano storie di cronaca rosa ora. Io non amo moltissimo partecipare a questi dibattiti televisivi, credo sempre che si commettano dei grandissimi scivoloni sia da una parte e dall'altra quindi per quella che è la mia esperienza, ho sempre cercato di tenermi il più distante possibile di provare a dare un contributo intellettuale laddove possibile».

Lei ha spiegato di non condividere la visione "carcerocentrica" e di mal sopportare la dialettica del "marcire in galera". Nonostante ciò che le è accaduto, è rimasta garantista, non ha ceduto alla tentazione di appiattirsi su posizioni giustizialiste.

«No, non ho mai ceduto a questa tentazione. Credo nel principio del garantismo e nell'idea di un carcere che rieduchi chi ci entra. Chi ha commesso un reato deve mettersi in discussione e migliorarsi. Serve a lui e alla vittima del reato. Penso che un'esperienza di dolore come quella che ho vissuto io, e l'ho vissuta anche da donna di legge, ti metta di fronte alla scelta di voler conservare o meno l'umanità. Sorge la domanda: io ho subìto questo, che cosa ne faccio? E allora diventano anche scelte di vita. Tutto il tema del carcere, deve essere un'occasione per interrogarci sulla propria umanità e su quella della società».