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Borghi: «Tre rivoluzioni in atto, è il momento delle scelte»

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Intervista a Enrico Borghi per «Unione Sarda» del 05-06-2025

di Giuseppe Deiana

 

«Quando la storia produce un salto di fase, c'è bisogno della politica». Di sicuro la "Politica" con la P maiuscola. Enrico Borghi, 57 anni, senatore e vicepresidente di Italia Viva, componente del Copasir (il Comitato parlamentare dei servizi) sarà domani a Cagliari (alle 15 nella sede della Fondazione di Sardegna, in via San Salvatore da Horta 2, l'incontro è organizzato dalla Fondazione Vittorio Occorsio) a parlare di quello che succede nell'attuale situazione geopolitica, descritta nel libro "Sotto attacco", in uscita per Rubettino.

Senatore, partiamo dalla situazione attuale.

«Lo scenario che ho provato a tratteggiare vuole dare una spiegazione di quello che sta accadendo. C'è la sensazione che il mondo sia impazzito, che ci sia la fine di un ordine globale, quello che è accaduto il 24 febbraio del 2022 in Ucraina è come lo sparo di Sarajevo che pose fine alla «Bella Epoque».

Ci eravamo abituati alla pace e invece...

«Il precedente ordine globale ci ha dato la sensazione di vivere in una bolla: eravamo in un mondo in cui il progresso garantiva il raggiungimento della dignità umana, con il trionfo della democrazia, il liberalismo e il libero mercato vincenti. Tanto che siamo andati avanti derubricando l'attentato alle Torri gemelle e senza comprendere gli sconquassi del Medio Oriente. E abbiamo visto l'ingresso della Cina nel Wto come un'adesione alla democrazia. Fino alla crisi finanziaria del 2008 che ha introdotto vincenti e perdenti del globalismo, gonfiando i debiti pubblici e poi facendo nascere populismo e sovranismo».

La guerra in Ucraina ha fatto scoppiare quella bolla?

«Come accadde anche gli antichi romani, abbiamo appaltato la guerra agli Stati Uniti, mentre il bisogno di energia è stato appaltato alla Russia, così come la manifattura è stata espulsa verso la Cina. L'Ucraina ha spezzato questo equilibrio e improvvisamente ci siamo sentiti appunto "sotto attacco", come il titolo del libro».

La storia ha prodotto una scossa, ora che fare?

«È accaduto che sono emersi tre modelli diversi, legati da un filo rosso, che si possono vivere e percepire come egemoni del futuro. Tutti e tre ritengono che la democrazia liberale sia desueta. Una è la Russia di Putin: il suo discorso al Financial Time del 2019 tratteggia la posizione russa rispetto alla decadenza della democrazia con l'idea dell'ideologo Dugin che i diritti siano un peccato. Inoltre, la Russia, si pone tra Cina e Usa con una ripresa del pensiero egemonico, mostra il suo volto imperialista in Ucraina, occupa i mari caldi, sta in Siria, Libia, conquista Odessa. La Cina nello scontro del 21' secolo mette insieme il confucianesimo con l'idea di un partito unico, superando anch'essa il modello della democrazia. E infine c'è la Silicon Valley in cui la tecnologia soppianta la democrazia sostituendola con un sistema di dominio elitario e tecnologico. Nel libro individuo una serie di punti, di tappe: dalla sicurezza, ai big data, alle telecomunicazioni, allo Spazio, all'Artico, tutti grani di un rosario che richiede una certa capacità politica per affrontare alcune azioni che vanno dalla riforma dei servizi fino ai sistemi di Difesa».

Peraltro, la guerra sta cambiando, non servono soldati, ma tecnologia: gli ultimi fatti lo dimostrano.

«Nel libro ho cercato di descrivere l'impatto tecnologico sulle organizzazioni delle fasi belliche, cosa che ha permesso all'Ucraina di resistere con l'intelligence e l'uso delle informazioni fino a capitalizzare poi con operazioni chirurgiche la sua resistenza. I droni sempre più piccoli e perniciosi, efficaci a centinaia di chilometri di distanza, così come l'operazione di Israele contro Hezbollah, dimostrano che la tecnologia oggi è moneta corrente e tutto questo incide sulla capacità del nuovo sistema di difesa, quindi vanno adeguati strumenti e legislazione a un mondo in evoluzione».

Serve dunque la politica per trovare le risposte.

«Nei salti di fase delta storia, come quello che stiamo vivendo ora, con tre rivoluzioni in atto, quella tecnologica, ambientale e geopolitica, si riscrivono le regole e c'è bisogno che la politica abbia la capacità di dare risposte».

La classe politica attuale è in grado di farlo?

«Vorrei risponderle utilizzando la frase latina "Spes contra spem". Chi ha l'opportunità di un incarico istituzionale cerca di dare un contributo, se la società non avverte i pericoli, si ferma. Ora è obbligata a ridestarsi. Altrimenti, se non riesce a percepire la rottura, si spalanca il baratro».

C'è da affrontare anche una crisi degli organismi sovranazionali, come l'Onu.

«Gli organismi multilaterali scontano difficoltà di sovranità effettiva sia per uno scontro filosofico sia perché non è stato fatto un passo in avanti sulla confederazione europea, unica scala per affrontare le cose. Bisogna essere consapevoli che il quadro politico non è più quello tra destra e sinistra, ma tra europeisti e sovranisti. Polonia, Romania, Germania dimostrano che serve un salto di fase, non ci si deve più chiudere nel classismo ma riformare le istituzioni altrimenti rischiamo che non funzionino».

Con l'apertura delle rotte nell'Artico e i cambiamenti climatici, il Mediterraneo rischia di essere meno strategico?

«Bisogna prendere consapevolezza che l'apertura di nuove rotte nell'Artico sta spostando verso nord la logistica. Si può reagire con la creazione di una "via del cotone", un raccordo tra l'India e il Mediterraneo che crei un'alternativa all'esclusività della Cina come fabbrica del mondo. In questo quadro, non si spiega l'arrendevolezza del Governo Meloni su Gaza. Dove non arriva il cuore arriva il portafoglio e la stabilizzazione del Medio Oriente può essere importante nel quadro dei rapporti economici con una nuova "via del cotone". Se l'Italia proponesse questo, riuscirebbe a dare una risposta alternativa a cinesi e russi che pianificano la loro strategia sull'Artico».