L'intervento di Teresa Bellanova, nell'Aula del Senato della Repubblica, 19 gennaio 2021.
Presidente del Senato, Colleghe senatrici, colleghi Senatori, Presidente del Consiglio, la domanda che risuona più volte è sempre la stessa: si può, nel mezzo di una pandemia e di una situazione drammatica come quella che il Paese vive aprire una crisi di governo?
Domanda legittima, ne siamo consapevoli. Ma fuorviante. Quella vera, che il suo discorso elude per intero, è radicalmente diversa. Interroga le fondamenta stesse della democrazia nel nostro Paese. Può un Governo, davanti a una pandemia che non accenna a retrocedere e a una situazione drammatica come quella che stiamo vivendo e per quanto possibile fronteggiando, fare dell’emergenza la sua unica ragione di esistenza, addirittura l’unica motivazione del suo esistere?
Non può essere soltanto il dover fronteggiare l’emergenza, ne converrà quest’Aula, a tenere in piedi un Governo: devono essere le scelte, gli atti, le riforme, i provvedimenti. Deve essere una visione di futuro, di nuova partenza a dire se questo governo può guidare o meno il Paese. Consentendogli di superare le difficoltà, di riformare le molte strutture che hanno dato segni di grande debolezza, di avviare la ripresa economica e sociale che merita. Resilienza è parola vuota se tutto questo manca.
E tutto questo, nel suo intervento, desolatamente manca.
E poteva un Governo, nella gestione della più rilevante mole di risorse su cui il nostro Paese farà affidamento nel prossimo futuro, esautorare sé stesso, i suoi Ministri, le Regioni, la Pubblica Amministrazione e il Parlamento, per affidare tutto a un gruppo di manager e tecnici scelti non si sa con quale criterio?
Poteva farlo nell’assoluta mancanza di una prospettiva esplicita, di una visione moderna e progressiva della nostra società e della nostra economia? Senza una vera interlocuzione con il Parlamento e con le forze politiche, tantomeno quelle sociali?
Abbiamo preso atto del suo parziale ripensamento, Signor Presidente. Ma abbiamo registrato anche i tentativi con cui fino all’ultimo ha provato a veicolare in modo surrettizio la formula a lei così cara di una opaca task force impropriamente chiamata a garantire il processo di governance.
Avere riportato nell’ambito della correttezza costituzionale e istituzionale la gestione del Recovery, abbandonando l’idea di opache soluzioni tecniciste, è un passo avanti che rivendichiamo alla nostra azione. Ancora ignoriamo il modello di Governance che si intende delineare e crediamo che il Parlamento abbia tutto il diritto di conoscerlo. Il vulnus prodotto resta. Restano i continui tentativi di aggirare i problemi e di marginalizzare chi nella maggioranza li ha posti e continua a porli. È imperdonabile il tempo perso in questo modo quando il Paese aveva necessità - al pari delle altre nazioni europee - di correre.
È il punto vero della fiducia.
Non l’allargamento più o meno credibile a maggioranze variabili, improvvisate e raccogliticce, a un incomprensibile meticciato politico portatore non di nuova governance ma solo di innominabili scambi. Questo non è il braccio di ferro tra Italia Viva, Matteo Renzi e il Presidente Conte.
È il banco di prova per decidere se prevale il rispetto della Costituzione e l'interesse pubblico. O l’improvvisazione di tatticismi e tecnicismi tutti da dimostrare nella loro efficacia e correttezza istituzionale. Se prevale la politica, la visione di futuro, la capacità di cambiamento, o l’interesse di parte, l’immobilismo, la trattativa sottobanco a favore di pochi e contro l’interesse di molti.
La straordinaria emergenza pandemica incombe su un Paese che da più di vent’anni ha tassi di crescita insoddisfacenti; quote di disoccupazione gravi; perdite di competitività severe; incrementi del debito più che preoccupanti; un Mezzogiorno che non trova risposte adeguate in “questo” Recovery; una posizione debole nello scenario europeo e fragilissima su quello internazionale.
Presidente, lo diciamo francamente in quest'Aula: la posizione che lei ha assunto sui fatti di Capitol Hill è stata debole in modo imbarazzante. Tanto da far pensare a mal celate ritrosìe nel condannare chi in questi anni ha guidato discutibilmente quella grande democrazia. Le difficoltà del Paese, centuplicate dall’emergenza, sono sotto i nostri occhi, quotidianamente. Nei giorni scorsi lo ha certificato anche Bankitalia.
Sappiamo da mesi che la fine del blocco dei licenziamenti potrebbe coincidere con un aggravamento sociale di dimensioni terribili. Le misure adottate finora non aprono né al futuro né al rilancio, piuttosto sembrano confermare l'immobilismo denunciato da noi, come dai più acuti osservatori.
Questo lei lo sa: glielo abbiamo più volte consegnato nelle numerose riunioni notturne di maggioranza. Come sa perfettamente che siamo stati noi, da riformisti, a porre le questioni su temi preoccupanti: la seria decrescita del lavoro femminile, imputabile anche alla mancata strategia utile alla riapertura delle scuole; l’urgenza di politiche attive; il sostegno concreto alle nuove povertà. Lei sa che è stato uno degli assilli su cui ho lavorato chiedendo cospicue risorse per il fondo emergenze alimentari. Le abbiamo detto più volte che non sarebbe stato il continuo ricorso ai bonus né la sola decontribuzione per le donne e per il Mezzogiorno quella leva economica sufficiente a produrre le necessarie opportunità occupazionali e a tirare fuori il Paese dalle secche e dall'immobilismo cui lo condannano politiche economiche esclusivamente passive. Se non sblocchiamo i cantieri non riparte l'occupazione.
È imperdonabile il ritardo di mesi con cui ancora fino ad oggi si è aspettata la nomina dei commissari. Tanta furbizia ci indigna!
Presidente, avrei preferito essere tediata affrontando un tema serio come quello del lavoro, piuttosto che registrare un intervento vacuo.
Le parti sociali hanno chiesto la proroga della Cig per Covid e del blocco dei licenziamenti. Ma tutti sappiamo che continuare a prorogare non ci allontanerà dal rischio che la fine del blocco porti la perdita già stimata di oltre un milione e mezzo di posti di lavoro. Senza una riforma degli ammortizzatori in senso universalistico non c’è speranza per politiche nuove.
Non dovrei essere io a ricordarle le centinaia di vertenze aperte che rischiano di moltiplicarsi, né il filo esilissimo a cui è appeso il destino di migliaia di lavoratori e lavoratrici. Da Ilva ad Alitalia a Whirpool fino al più piccolo tavolo di crisi, è difficile pensare che una politica fatta esclusivamente di bonus e rinvii potrà dare risposte utili, degne e proficue. Senza una nuova politica industriale che scelga i settori, le industrie e le filiere su cui puntare non c’è incentivo o bonus che potrà dare risposte durature a quei lavoratori e a quelle famiglie.
È vero, nel tessuto produttivo e nel mondo del lavoro covano enormi paure sul futuro. È realistico l’allarme sulle potenze politiche e finanziarie che pensano di poter approfittare di questo momento per comprare l’Italia e colonizzare le nostre aziende. Ma senza una vera e concreta politica estera e commerciale, in coerenza con l’Europa, non potremo mai sperare di competere, e saremo destinati a soccombere nella competizione mondiale.
Perché, allora, a maggior ragione dinanzi a rischi così enormi, si continua a “navigare a vista”? Nulla, nella sua relazione, nonostante l'uso fin troppo disinvolto del termine politica ridotto ad aggettivo, ci autorizza a cogliere significativi segnali di quel cambio di passo auspicato da tutti. Oggi non è più necessario o coincide con l'allargamento purchessia della maggioranza, utile a estromettere l'unica voce realmente critica con cui lei fino a ieri si è misurato?
Perché non raccogliere l’urgenza che ci porta da mesi a chiedere una discussione pubblica sul Recovery e una verifica programmatica per un patto di fine legislatura? Perché esitare a discutere di debito buono?
Perché sul Mes si permette ancora che prevalga il pregiudizio ideologico piuttosto che un’analisi serrata sul rapporto costi/benefici? L’unica che dovrebbe avere senso davanti all’emergenza sanitaria che avvolge il Paese. Non è solo il Covid l’emergenza sanitaria in questo Paese.
Il punto è qui.
Non è nella personalizzazione caricaturale di un duello. Ma nel confronto tra un Paese che non può rinunciare al necessario riformismo che lo riporti all’altezza delle sue migliori energie per rilanciare il ruolo europeo e internazionale, e un Paese residuale, “grande malato d’Europa”, con la speranzella di essere “troppo grande per fallire”.
La differenza tra riformismo, crescita e assistenzialismo è qui.
Il nodo concreto dell’utilizzo di quanto avremo a disposizione, fino all’ultimo euro, è qui.
Ed è qui la ragione per cui abbiamo sempre chiesto una strategia per fronteggiare l'emergenza e spalancare le porte sul dopo.
La pandemia preoccupa tutti. Non solo chi usa toni paternalistici. Siamo consapevoli del momento estremamente preoccupante che i cittadini si trovano a vivere. Al Paese non serve un Highlander, ma una classe dirigente autorevole che riesca a guardare non solo a come fronteggiare l'emergenza, ma che sappia coinvolgere le forze sane del Paese nella costruzione di una visione, di strategie vincenti, di un cronoprogramma che guardi alla rapidità dell'oggi salvaguardando il domani. Il solo “restate a casa” non è mai bastato e non basta più.
Presidente, abbiamo spiegato ampiamente le ragioni delle nostre dimissioni nella lettera inviata a lei e al Presidente Mattarella. Un atto di responsabilità il nostro, con il quale speravamo che finalmente potesse trovare il tempo di fermarsi a riflettere su quanto da mesi le chiedevamo. Per noi non abbiamo chiesto nulla. Non abbiamo disseminato mine ma avanzato sempre proposte. Abbiamo chiesto solo di fermarsi, e ripensare il futuro del Paese.
Lei, Signor Presidente, avrebbe dovuto svolgere la sua funzione di massimo responsabile politico, di costruttore di sentimenti comuni. La mediazione è un lavoro duro e complicato. Invece assistiamo alla metamorfosi di un arbitro, Lei Presidente, che diventa giocatore, incurante del rischio enorme a cui espone il Paese.
Si è preferito restare sordi alle ragioni che hanno determinato la nostra scelta.
E invece di scegliere la responsabilità per andare avanti attraverso un confronto, lei si è impegnato senza sosta, in prima persona, in una ricerca tartufesca dei cosiddetti responsabili. Non in forza di una visione e di contenuti, ma per pura sopravvivenza.
Qui è la ragione della scelta che assumeremo oggi dinanzi alla richiesta di fiducia.
Da noi non verrà l'avallo ad una soluzione meramente numerica; che tradisce il vuoto di politica e condanna il Paese a un vuoto di visione e di prospettiva. Per tutte queste ragioni il nostro è un voto di astensione.
Chi lo desidera può rivedere l'intervento qui di seguito o a questo indirizzo.