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Scalfarotto: "A Di Maio dico: non si può parlare di export senza far ripartire la produzione del Made in Italy"

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Intervista di Ilario Lombardo, "la Stampa", 15 aprile 2020.

«Non c’è export, senza produzione». Questa semplice formula, secondo Ivan Scalfarotto, è la chiave della riapertura del sistema industriale italiano. Il sottosegretario agli Esteri, esponente di Italia Viva, ha letto l’articolo della Stampa che anticipava le strategie del governo a tutela del Made in Italy, argomento su cui ha già lavorato allo Sviluppo economico. Ora lo fa alla Farnesina, con qualche difficoltà in più, dato che con il ministro Luigi Di Maio ci sono divergenze tali che poco più di un mese fa lo hanno quasi portato alle dimissioni.

Scalfarotto, il ministro Di Maio ha fatto partire i tavoli sull’export, con un occhio ai settori principali del Made in Italy. Non è una buona idea?
«Lodevole, per carità, anche se forse non avremmo dovuto aspettare il virus e avremmo dovuto farlo ben prima. Il tavolo della moda, che conosco bene perché l’ho presieduto quando ero sottosegretario allo Sviluppo economico, non si riunisce dai tempi del governo Gentiloni. Eppure è uno dei settori trainanti dell’economia italiana. Ma qui bisogna essere onesti fino in fondo».

Si spieghi.
«Design, moda, acciaio: rischiamo di vederci sottrarre clienti e quote di mercato da Paesi concorrenti dove la produzione non si è fermata nonostante il virus abbia colpito anche lì. Questo è il punto. Per capirlo va invertito il ragionamento: se manca il prodotto, cosa vendiamo all’estero? Noi dobbiamo, in condizioni di sicurezza, rimettere le imprese della seconda manifattura di Europa nella posizione di poter riaprire le proprie attività. Il genio italiano che sta dietro il Made in Italy sta nelle capacità di trasformare le materie prime in un prodotto che tutto il mondo vuole comprare. Ma questo è un momento epocale che rimette in discussione i nostri schemi. Glielo dice un grande tifoso dell’export: poiché anche i nostri clienti all’estero sono in difficoltà, noi dobbiamo essere più attenti di prima alla domanda interna, che si rilancia già semplicemente facendo riaprire le imprese ed evitando che le persone perdano lavoro e reddito».

Il governo pare che si stia attrezzando.
«Spero che la convocazione di questi tavoli da parte del Ministro Di Maio stia a significare che finalmente il M5S è venuto sulle nostre posizioni. Finora di fronte alle sollecitazioni delle aziende da parte del governo c’è stato solo grande silenzio, a parte noi di Italia Viva».

Perché innanzitutto ci si è concentrati sull’imperativo categorico di evitare il dilagare del virus.
«Nessuno pensa che l’economia venga prima della salute. Ma far ripartire l’Italia è un imperativo altrettanto categorico con il quale va trovato un equilibrio».

Il suo leader, Matteo Renzi ha chiesto di riaprire le fabbriche per primo. Ma lo ha fatto mentre ancora la curva dei contagi era in salita e il governo era impegnato nel contenimento del virus. Non è stato inopportuno?
«Renzi si è fatto portatore di una esigenza giusta al momento giusto. Lui sostiene, e io sono d’accordo, che è proprio nel momento della stasi che serve un pensiero lungo. Proprio mentre l’Italia era ferma bisognava cominciare a pensare al fatto che saremo presto in una terra di mezzo, quella che c’è tra l’uscita dal lockdown e la sconfitta del virus. Per poter sopravvivere nella terra di mezzo, nell’attesa che il virus sia debellato, dobbiamo attrezzarci con nuove idee».

Adesso a dare supporto al governo c’è la task force di Vittorio Colao. Renzi lo ha proposto come ministro alla ricostruzione, il leader del Pd Nicola Zingaretti frena…
«Penso che Colao sia un fuoriclasse. Ora però il suo gruppo di lavoro deve poter produrre quanto prima quel progetto per la ripartenza che finora non è emerso. Se farlo ministro significa metterlo nelle migliori condizioni per operare, ben venga».

Ma se gli esperti, epidemiologi e virologi, dovessero continuare a dire che è meglio restare chiusi, lei si prenderebbe la responsabilità di riaprire?
«Proprio ieri il Professor Burioni ha risposto al Ministro Boccia che chiedeva alla scienza “certezze inconfutabili” se per caso non volesse pure dei numeri da giocarsi al Superenalotto. E parliamo di uno scienziato che con altri undici colleghi ha già proposto un piano per la fase 2 con la creazione di una struttura di monitoraggio e di risposta flessibile. In ogni caso: la sfido a trovare un esperto che dica che possiamo rimanere così per un anno, un anno e mezzo, fino a quando il vaccino arriverà in commercio. Come ha detto Mario Draghi davanti a questa crisi dobbiamo ulteriormente indebitarci, ma questo nuovo debito non può essere fine a sé stesso: serve a fare in modo che l’economia possa restare in vita». 

Ma le fabbriche non sono chiuse da neanche un mese. Ed è stato importante farlo perché la maggiore densità di stabilimenti si trova in Lombardia, la regione più colpita dal coronavirus.
«Ci sono filiere a un passo dal disastro assoluto. Prendiamo la moda. Sono 100 miliardi di fatturato. Abiti, scarpe, accessori, hanno una lunghissima gestazione. Star fermi oggi può comportare un ritardo di tre stagioni sulle collezioni. Altro esempio: l’acciaio. Come fai a tenerlo fermo se è presente ovunque, anche nei macchinari che servono a produrre ogni altra cosa? La lotta al Covid 19 sta riproponendo con vigore l’antico confronto tra chi ha una concezione salvifica dello Stato nell’economia, come il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli che evoca un nuova Iri e che nazionalizza Alitalia, e chi invece pensa che lo Stato non debba fare l’imprenditore ma, usciti dall’emergenza, tornare a essere il regolatore del mercato. Non credo che elargire sussidi sia la ricetta: c’è qualcuno che lo pensa, anche da prima del virus. Io già da allora pensavo che quello che serve è il lavoro».

Il lavoro deve essere sicuro, però.
«Il segretario della Cgil Maurizio Landini ha promosso l’accordo con Fca. Abbiamo un protocollo di sicurezza firmato da sindacati e datori di lavoro che altri Paesi stanno prendendo a modello. Nessuno chiede di fare marcia indietro. Ma ci sono 7,7 milioni di lavoratori che non si sono mai fermati: vuol dire che le condizioni di sicurezza si possono avere. Basta garantirle. Più delle liste con i codici Ateco delle aziende, il governo deve investire e chiedere alle imprese di investire nella sicurezza. Alcune si erano già attrezzate per conto loro e sono pronte. FederlegnoArredo ha pubblicato un decalogo sui giornali per dimostrare di essere pronta a rivedere l’organizzazione del lavoro all’interno del proprio settore. Non solo all’interno degli stabilimenti con più turnazioni, ma anche all’esterno, valutando l’impatto sui trasporti pubblici o offrendo più flessibilità alle famiglie che hanno problemi a lasciare i bambini a casa se le scuole sono chiuse. Pensare che i nostri imprenditori vogliano solo mandare allo sbaraglio i lavoratori è fuori dalla realtà. Il talento delle persone che lavorano nelle nostre imprese è il più importante fattore del loro successo. E chi fa Made in Italy lo sa più degli altri».